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...Nel racconto dell'ascensione di Cristo al cielo l'evangelista Luca ha incastonato un'osservazione che mi è sempre parsa sorprendente, ogniqualvolta ho tentato di trovarvi una spiegazione anche dal punto di vista teologico.
Nel suo vangelo, infatti, Luca dice che gli apostoli erano pieni di una grande gioia, tornandosene a Gerusalemme dal monte degli Ulivi.
Ciò non corrisponde affatto alla nostra psicologia ordinaria: l'ascensione fu l'ultima manifestazione del Risorto; i discepoli sapevano che non l'avrebbero più rivisto in questo mondo. Certamente questo distacco non è paragonabile a quello del venerdì santo, poiché allora Cristo era apparso pubblicamente come un uomo fallito, e tutte le speranze passate dovevano rivelarsi niente più che un grosso abbaglio.
Al confronto, il commiato di Gesù quaranta giorni dopo la risurrezione reca in sé qualcosa di trionfale e di fiducioso: questa volta Gesù ci precede non nella morte, ma nella vita. Egli non è lo sconfitto: Dio gli ha reso giustizia. Senza dubbio, dunque, c'è motivo di gioia. Ma quando intelletto e volontà di rallegrano, non è detto che anche il sentimento debba fare lo stesso.
Pur comprendendo la vittoria di Gesù, si può soffrire per la perdita della sua vicinanza umana...
Ma [dall'esperienza dei martiri] possiamo almeno supporre che la gioia della vittoria di Cristo non tocca solo l'intelletto, ma può penetrare anche nei cuori, e soltanto così avere davvero la meglio.
Solo quando anche in noi avviene qualcosa del genere, possiamo comprendere il senso della festa dell'Ascensione.
Ciò che qui accade è la vittoria della definitività della redenzione nel cuore dell'uomo, così che la conoscenza si trasforma in gioia...
JOSEPH RATZINGER -