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Haftling: ho imparato che io sono uno Haftling (detenuto). Il mio nome è 174.517; siamo stati battezzati, porteremo finché vivremo il marchio tatuato sul braccio sinistro.
L'operazione è stata lievemente dolorosa, e straordinariamente rapida: ci hanno messi tutti in fila, e ad uno a uno, secondo l'ordine alfabetico dei nostri nomi, siamo passati davanti a un abile funzionario munito di una specie di punteruolo dall'ago cortissimo.
Pare che questa sia l'iniziazione vera e propria: solo "mostrando il numero" si riceve il pane e la zuppa.
Sono occorsi vari giorni, e non pochi schiaffi e pugni, perché ci abituassimo a mostrare il numero prontamente, in modo da non intralciare le quotidiane operazioni annonarie di distribuzione; ci son voluti settimane e mesi perché ne apprendessimo il suono in lingua tedesca.
E per molti giorni, quando l'abitudine dei giorni liberi mi spinge a cercare l'ora sull'orologio a polso, mi appare invece ironicamente il mio nuovo nome, il numero trapunto in segni azzurrognoli sotto l'epidermide.
Solo molto più tardi, e a poco a poco, alcuni di noi hanno imparato qualcosa della funerea scienza dei numeri di Auschwitz, in cui si compendiano le tappe della distruzione dell'ebraismo d'Europa. Ai vecchi del campo, il numero dice tutto: l'epoca di ingresso al campo, il convoglio di cui si faceva parte, e di conseguenza la nazionalità. Ognuno tratterà con rispetto i numeri dal 30.000 all'80.000: non sono più che qualche centinaio, e contrassegnano i pochi superstiti dei ghetti polacchi.
Conviene aprire bene gli occhi quando si entra in relazioni commerciali con un 116.000 o 117.000: sono ridotti ormai a una quarantina, ma si tratta dei greci di Salonicco, non bisogna lasciarsi mettere nel sacco.
Quanto ai numeri grossi, essi comportano una nota di essenziale comicità, come avviene per i termini "matricola" o "coscritto" nella vita normale: il grosso numero tipico è un individuo panciuto, docile e scemo, a cui puoi far credere che all'infermerìa distribuiscono scarpe di cuoio per individui dai piedi delicati, e convincerlo a corrervi e a lasciarti la sua gamella di zuppa "in custodia"; gli puoi vendere un cucchiaio per tre razioni di pane; lo puoi mandare dal più feroce dei Kapos, a chiedergli (è successo a me!) se è vero che il suo è il Kartoffelschálkommando, il Comando Pelatura Patate, e se è possibile esservi arruolati. D'altronde, l'intero processo di inserimento in questo ordine per noi nuovo avviene in chiave grottesca e sarcastica.
Finita l'operazione di tatuaggio, ci hanno chiusi in una baracca dove non c'è nessuno.
Le cuccette sono rifatte, ma ci hanno severamente proibito di toccarle e di sedervi sopra: così ci aggiriamo senza scopo per metà della giornata nel breve spazio disponibile, ancora tormentati dalla sete furiosa del viaggio. Poi la porta si è aperta, ed è entrato un ragazzo dal vestito a righe, dall'aria abbastanza civile, piccolo, magro e biondo. Questo parla francese, e gli siamo addosso in molti, tempestandolo di tutte le domande che finora ci siamo rivolti l'un l'altro inutilmente. Ma non parla volentieri: nessuno qui parla volentieri.
Siamo nuovi, non abbiamo niente e non sappiamo niente; a che scopo perdere tempo con noi?
Ci spiega di malavoglia che tutti gli altri sono fuori a lavorare, e torneranno a sera. Lui è uscito stamane dall'infermeria, per oggi è esente dal lavoro. Io gli ho chiesto (con un'ingenuità che solo pochi giorni dopo già doveva parermi favolosa) se ci avrebbero restituito almeno gli spazzolini da denti; lui non ha riso, ma col viso atteggiato a intenso disprezzo mi ha gettato: -
Ed è questo il ritornello che da tutti ci sentiamo ripetere: non siete più a casa, questo non è un sanatorio, di qui non si esce che per il Camino (cosa vorrà dire? Lo impareremo bene più tardi).
E infatti: spinto dalla sete, ho adocchiato, fuori di una finestra, un bel ghiacciolo a portata di mano. Ho aperto la finestra, ho staccato il ghiacciolo, ma subito si è fatto avanti uno grande e grosso che si aggirava là fuori, e me lo ha strappato brutalmente. -
... Qui non ha loco il Santo Volto!
qui si nuota altrimenti che nel Serchio
(Dante inferno XXI)
Ora dopo ora, questa prima lunghissima giornata di antinferno volge al termine.
Mentre il sole tramonta in un vortice di truci nubi sanguigne, ci fanno finalmente uscire dalla baracca.
Ci daranno da bere? No, ci mettono ancora una volta in fila, ci conducono in un vasto piazzale che occupa il centro del campo, e ci dispongono meticolosamente inquadrati. Poi non accade più nulla per un'altra ora: sembra che si aspetti qualcuno.
Una fanfara incomincia a suonare, accanto alla porta del campo: suona Rosamunda, la ben nota canzonetta sentimentale, e questo ci appare talmente strano che ci guardiamo l'un l'altro sogghignando; nasce in noi un'ombra di sollievo, forse tutte queste cerimonie non costituiscono che una colossale buffonata di gusto teutonico. Ma la fanfara, finita Rosamunda, continua a suonare altre marce, una dopo l'altra, ed ecco apparire i drappelli dei nostri compagni, che ritornano dal lavoro.
Camminano in colonna per cinque: camminano con un'andatura strana, innaturale, dura, come fantocci rigidi fatti solo di ossa: ma camminano seguendo scrupolosamente il tempo della fanfara. Anche loro si dispongono come noi, secondo un ordine minuzioso, nella vasta piazza; quando l'ultimo drappello è rientrato, ci contano e ci ricontano per più di un'ora, avvengono lunghi controlli che sembrano tutti fare capo a un tale vestito a righe, il quale ne rende conto a un gruppetto di SS in pieno assetto di guerra. Finalmente (è ormai buio, ma il campo è fortemente illuminato da fanali e riflettori) si sente gridare "Absperre!", al che tutte le squadre sì disfano in un viavai confuso e turbolento.
Adesso non camminano più rigidi e impettiti come prima: ciascuno si trascina con sforzo evidente. Noto che tutti portano in mano o appesa alla cintura una scodella di lamiera grande quasi come un catino. […]
Moltissime cose ci restano da imparare, ma molte le abbiamo già imparate. Già abbiamo una certa idea della topografia del Lager, questo nostro Lager un quadrato di circa seicento metri di lato, circondato da due reticolati di filo spinato, il più interno dei quali è percorso da corrente ad alta tensione. E costituito da sessanta baracche in legno, che qui si chiamano Blocks, di cui una decina in costruzione; a queste vanno aggiunti il corpo delle cucine, che è in muratura; una fattoria sperimentale, gestita da un distaccamento di Haftlinge privilegiati; le baracche delle docce e delle latrine, in numero di una per ogni gruppo di sei od otto Blocks.
Di più, alcuni Blocks sono adibiti a scopi particolari. Innanzitutto, un gruppo di otto, all'estremità est del campo, costituisce l'infermeria e l'ambulatorio; v'è poi il Block 24 che è il Kratzeblock, riservato agli scabbiosi; il Block 7, in cui nessun comune Haftling è mai entrato, riservato alla "Prominenz", cioè all'aristocrazia, agli internati che ricoprono le cariche supreme; il Block 47, riservato ai Reiclisdeutsche (gli ariani tedeschi, politici o criminali); il Block 49, per soli Kapos, il Block 12, una metà del quale, ad uso dei Reichsdeutsche e Kapos, funge da Kantine, cioè da distributorio di tabacco, polvere insetticida, e occasionalmente altri articoli; il Block 37, che contiene la Fureria centrale e l'Ufficio del lavoro; e infine il Block 29, che ha le finestre sempre chiuse perché è il Frauenblock, il postribolo del campo, servito da ragazze Háftlinge polacche, e riservato ai Reichsdeutsche.
I comuni Blocks di abitazione sono divisi in due locali; in uno (Tagesraum) vive il capo-
Abbiamo ben presto imparato che gli ospiti del Lager sono distinti in tre categorie: i criminali, i politici e gli ebrei.
Tutti sono vestiti a righe, sono tutti Haftlinge, ma i criminali portano accanto al numero, cucito sulla giacca, un triangolo verde; i politici un triangolo rosso; gli ebrei, che costituiscono la grande maggioranza, portano la stella ebraica, rossa e gialla.
Le SS ci sono si, ma poche, e fuori del campo, e si vedono relativamente di rado: i nostri padroni effettivi sono i triangoli verdi, i quali hanno mano libera su di noi, e inoltre quelli fra le due altre categorie che si prestano ad assecondarli: i quali non sono pochi. Ed altro ancora abbiamo imparato, più o meno rapidamente, a seconda del carattere di ciascuno; a rispondere "jawoll" , a non fare mai domande, a fingere sempre di avere capito.
Abbiamo appreso il valore degli alimenti; ora anche noi raschiamo diligentemente il fondo della gamella dopo il rancio, e la teniamo sotto il mento quando mangiamo il pane per non disperderne le briciole. Anche noi adesso sappiamo che non è la stessa cosa ricevere il mestolo di zuppa prelevato dalla superficie o dal fondo del mastello, e siamo già in grado di calcolare, in base alla capacità dei vari mastelli, quale sia il posto più conveniente a cui aspirare quando ci si mette in coda.
Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere quest’offesa, la demolizione di un uomo.
In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati in fondo.
Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile.
Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero.
Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.
(da "Se questo è un uomo" -